
Ogni terra custodisce gelosa le sue storie che non racconta volentieri ai forestieri, un po’ per pudore e un po’ per timore che a morire sia proprio la memoria quando perde la sua corsa con la storia.
Ogni terra, campo, collina, ogni fiume e ogni singolo fosso, nasconde i suoi racconti di guerre, vinte e perse, e delle infinite anime che lì si sono consumate nella loro ultima fatica.
Al vecchio torna in mente un vivaio di alberi ordinati dove si facevano le buche per piantare la vita; poi fu il mortaio a farci le sue buche assassine, e allora laggiù si piantarono solo croci. Croci di morti sbagliate, che la sorte assegnava senza riguardo e compassione.
La vita e la storia che si combattono e poi si ritrovano unite nei solchi dei campi e poi in quelli dei dischi, nei libri tristi, nei testi rinchiusi in lunghi scaffali, in quelle storie di vita che non sempre è vita.
Ora la vede lassù, la sua piccola città natale sulla collina: ha tante piccole antenne poste sul rosso dei tetti mossi in pendenza e contro pendenza, compluvi e tempie, pluviali di rame e discendenti da ogni piccolo o grande casato, caseggiato, torre, altana, cavallo o castello. Come è bella la sua città!
Nella piazza principale se ne stanno in fila i merli appollaiati sui palazzi, mentre corvi e piccioni si gettano giù dai bastioni, in voli talvolta spericolati, senza però cadere mai. E avranno forse dimenticato il verso del ruggito, i due grandi leoni rimasti immobili da cinquecento anni ai piedi delle colonne ai lati del palazzo comunale?
Ogni passo di chi arriva in città è atteso dal tappeto di bozze grigie distese, ordinate e non, fortunatamente ancora rimaste per terra, per passeggiare e correre, o anche star fermi a guardare le altre bozze squadrate, murate negli angoli retti, e che reggono anch’essi i tetti, le volte, gli archi e le bifore di antichi palazzi e case torri.
Dal belvedere si vede la valle: è una veduta diretta ed obliqua sul fondo della valle vicina, che s’imbuca in un angolo lontano di mare senza rispettare alcuna distanza minima leale tra la mente e il cuore, che là si fondono e confondono.
Con il sole che s’inclina, le colline si rincorrono e sembrano balene con il dorso rivolto verso il cielo o dune del deserto che in quell’ora ha ormai un unico colore. In mezzo alle colline si riannoda la strada lungo quel filo ripreso dai colori rossi, gialli e verdi, da fior di ricordi di casolari, campi spigati e querce secolari.
C’è un vecchio seduto su una panchina, che come ogni mattina respira la sua vita al margine della strada nazionale. La nebbia lo inghiotte insieme alla strada e a un albero secco ricoperto di edera, che pare un soldato messo lì a guardia, in cima all’argine del fosso.
La visibilità è minima, e solo il minuto è visibile. Sfuma l’orizzonte e fumano davanti a lui gli scarichi degli autobus. Un’altra corriera se n’è andata e ha lasciato dietro di sé una scia del suo caldo fumo, simile, per chi non sente ormai più né odori né profumi, al caldo vento di scirocco.
Nel cielo appare adesso un esile filo di sole, in quella fredda e sciocca giornata piena solo di nebbia e ricordi. La navigazione è a vista, la vista è immaginazione di paesaggi trasparenti, nascosti e immaginati.
Poco più in là, due alti pini piovuti da un mondo lontano, parlano tra loro di caldo, di mare e di sole e guardano un vecchio seduto in mezzo a una grigia mattina di novembre.
J. Iobiz
Mamma mia mi si sono gonfiati appieno i polmoni … ci ho visto terra rossa di Toscana … ci ho visto un luogo che conosco a memoria … questo è uno scorcio di vita d’altri (ma anche un po’ mia) che mi porterò nel cuore sempre. Grazie. 🙂 davvero grazie.
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Proprio bella…la panchina ha sempre(almeno per me) sull’essenza di attesa su cui far sedere ricordi, presente e sogni. 🌹🤗
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Grazie, anche a me evoca l’attesa, un prima e un dopo, e anche un po’ il senso di un’isola rispetto a tutto ciò che c’è intorno
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L’ha ripubblicato su Jakob Iobiz.
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