Sulle rive dei fiumi sognano i poeti,
negli alvei gli ingegneri costruiscono campate
e sotto i ponti si accampano i barboni.
Sui ponti l’acqua ci cade sopra e ci corre sotto,
le persone, invece, ci corrono sottosopra
e, per fortuna, ci cadono raramente,
perché inciampano, o sono molto distratte
oppure sono colpite da improvvisi accidenti.
I treni e le auto, invece, passano
indifferentemente dove credono,
anche se credere, parlando di un treno
o di un’auto, è una parola ingombrante
che sotto il ponte non sempre ci passa.
I ben passanti se la passano bene
e pensano e pescano nei loro ricordi
un’esca o una vecchia fantesca
della quale ricordano, forse sbagliandosi,
di essere stati in braccio da piccoli.
Pontaioli e contadini non hanno però mai visto
i fiumi di soldi invisibili e sotterranei
ed hanno invece udito
quelli di chiassose parole
e di cheta acqua dolce.
I ponti non tornano mai,
anche se li rifai più volte,
ma neanche vanno via,
se ne stanno lì sospesi
tra le ansie e i limi fangosi,
con le loro campate talvolta ardite,
altre volte no, ma sempre ordite con cura,
alte mura, bastioni e contrafforti
di cemento armato e pietre levigate.
I ponti sono tosti, non perdono la testa
e quasi mai cedono alla voglia di farsi un tuffo giù;
magari flettono, ma piuttosto riflettono
nell’acqua un’immagine a cui sono saldamente legati,
talvolta anche con lunghi cavi d’acciaio.
Anche se hanno gradi luci, i ponti
non sono sempre illuminati,
come non lo siamo noi che ci passiamo sopra,
raccolti nei nostri oscuri pensieri
e la nostra terrestre superficialità.
Poi, ecco, che ad un tratto il fiume finisce,
e noi con lui; allora i ponti non servono più.
Là in fondo c’è un mare,
che sembra messo lì apposta,
per abbracciare poeti, ingegneri, barboni,
soldi, parole, ponti, fiumi e fantesche.