Vi nasceva e moriva il sole di brace, passavano alte le anitre scure in lunghe file nel nuvolo autunno in neri stormi in quel grigio del cielo. Luccicava il fiume tra le sue rive larghe, sapienti e abbandonate, bianche e slabbrate e sparse di ciottoli, dove covava un male assassino. Era malaria e t’entrava nelle ossa con l’acqua e il pane che ti mangiavi, ti rincorreva per le vie spopolate e t’inchiodava all’uscio di casa.
Tremanti di febbre sotto il pastrano morivan così, l’un dopo l’altro, femmine e maschi, già bell’e pronti a guadagnarsi un pezzo di pane. Eppur la malaria non prendeva tutti e c’era chi ci campava cent’anni come il ragazzo, quello che chiamavano lo scimunito, che sembrava un cane senza padrone. Lui non aveva né arte né parte, né padre, né madre, né dove dormire non aveva neppure cosa mangiare e viveva solo di carità. Andava scalzo e scamiciato su quelle sue gambe nere e magre
sempre cantando sotto quel sole che martellava la sua testa nera. Eppure lui non si ammalò, neppur la malaria se lo voleva, forse anche lei non sapeva che farne di un cane senza neanche un padrone. Forse neppure sapeva che esisteva, tanto era scemo quel miracolato.
(Liberamente ispirata al racconto Malaria di Giovanni Verga )
P.S. Cercando di mettere un po’ di ordine nella mia cassapanca letteraria, cioè il vecchio Packard Bell 2009, ho trovato alcuni miei testi su opere di letteratura che mi hanno particolarmente colpito e ho deciso di publbicarle qui sul blog. Forse è anche questo un modo di bruciare qualcosa a fine anno.