La sera, per andare a casa, passo davanti a un bar dove si ritrovano i giovani aperitivisti. Poco più avanti ce n’è un altro dove vanno le persone più mature, quelle un po’ sfigati che a quaranta o cinquant’anni fanno ancora l’aperitivo perché a casa li sta aspettando la mamma oppure non hanno nessuno con cui cenare. In centro c’è solo un altro bar aperto a quell’ora nei mesi invernali. Poi c’è una comitiva di anziani che secondo me è pagata dal Comune per rimanere a passeggiare in città.
Quando ero giovane era diverso. Nelle vie del centro c’erano molti bar, pieni di fumo e di gente, tutti con la sala del biliardo, i tavoli per giocare a carte e il tabellone dove la domenica controllavi se avevi fatto tredici al totocalcio. Ce n’era uno per quelli di sinistra e gli anarchici, un altro per quelli di destra e i figli di papà, uno per i borderline, drogati, hippie e rockettari, uno per gli sportivi, uno per i cacciatori e i pescatori. In tutti i locali si fumava in modo esagerato, senza curarsi del fumo passivo non ancora scoperto. E si andava avanti così, tra discussioni politiche, liti calcistiche e diverbi su Altobelli e Muraro, il fumo, le pastiche, Premiata Forneria Marconi e Carlos Santana. Ma ognuno al proprio posto, senza mescolarsi, con ordine. Una specie di Collettivo Zubrowka.
È in uno di questi bar che ho imparato quello che non mi hanno insegnato all’università. Pure se poco, qualcosina.
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