Fui dimesso dall’ospedale dopo cinque anni di ricovero. Prima di partire, andai a fare una visita di ringraziamento alla chiesa del manicomio. Questa era molto più antica dei fabbricati che le stavano vicino; aveva un portico con sei archi davanti alla facciata che si apriva su un largo piazzale e alle sue spalle c’era un convento con il chiostro e una palma. Sulla facciata della chiesa, in mezzo all’intonaco, vi erano alcune lapidi con iscrizioni latine. Il tetto era ricoperto di vecchi coppi ed embrici macchiati di mille colori e tutto era sovrastato da un piccolo campanile.
All’interno della chiesa filtrava pochissima luce. Là dentro il tempo sembrava essersi fermato. Al suo posto c’era il silenzio; un silenzio che risuonava ancora di umili preghiere e delle invocazioni di chi era stato lì dentro a pregare.
«Signore, Tu lo sai, ho avuto la notte come sorte e come compagni tristi, ammansiti, sommessi poeti coi sedativi nelle braccia. Ora vorrei in dono di non conoscere la paura, e che Tu ascoltassi, veramente, le mie pene».
«Voi, o Dio, ci annegate di ricordi; tardi scende il mare ma noi non scendiamo mai, e il sole e il temporale si spiegano, e poi d’oro nel cielo il sereno riappare, ma per noi l’amore non brilla mai».
«Signore, se veramente non posso fare a meno di vivere tutto questo, dammi almeno un cuore di pietra. Così non si bagneranno di pianto i miei occhi e potrò tenere fisso lo sguardo, fermi la voce e il passo, senza tradire emozioni. Con un cuore di pietra non avrò più paura di niente, né compassione per nessuno; sarò solo, ma basterò a me stesso».