Soprabiti disabitati

Spesso si trattava di persone come me, che avevano avuto una vita normale prima del ricovero; poi si erano ammalati ed erano finiti là dentro; altri normali non lo erano mai stati e, può darsi, fossero arrivati lassù da qualche altro ospedale o quando erano ancora piccoli. Ma non c’era differenza: tutti stavamo per giornate intere là fermi agli angoli delle strade a fumare. Alcuni erano magri cadaverici, ad altri le pance spanciavano più del dovuto e del voluto, senz’altro più del goduto.

Alla sera, gli uni e gli altri ritornavano dentro i loro edifici per mangiare e per dormire. E là dentro se ne stavano fermi con il viso rivolto verso un televisore o verso il nulla, lo sguardo vuoto come quadri affissi a un muro.

Erano come dei soprabiti disabitati, abbandonati in una enorme sala d’aspetto, appesi ad attaccapanni inchiodati in mezzo a pareti ricoperte di vecchie croste e crepe, portaombrelli e specchi che riflettevano ora un’immagine vuota, ora un vecchio calvo, ora un raggio di luce.

Il loro capo si imbiancava chino sotto il peso degli anni, come accadeva a quei piccoli giardini distesi proprio davanti ai loro padiglioni, d’inverno quando s’adornavano della neve che arrivava dal mare.

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