
Oggi ho accompagnato mio nonno, che da solo non ne sarebbe stato capace, a rivedere la casa dove è nato in un paesino di collina sperduto in mezzo alla campagna e ai boschi. Abbiamo fatto una lunga strada in autobus fino al paese e poi abbiamo proseguito per un piccolo tratto a piedi, lungo una strada sterrata fin dove doveva esserci la sua vecchia casa.
Mentre camminavamo, lui non faceva altro che dire che gli sembrava tutto più piccolo e diverso di come se lo ricordava e mi diceva in continuazione: «Vedi Matilde, qui c’era questo, là c’era quello. Laggiù ci abitava Tizio e lassù Caio, eccetera eccetera».
Però, quando siamo arrivati dove si sarebbe dovuta trovare la sua vecchia casa è rimasto in silenzio. Adesso c’è un albergo con una piscina, diversi casolari e tanti turisti in vacanza. Quando era piccolo, invece, c’erano solo due case; e in ciascuna abitava una sola famiglia.
«In una famiglia erano in due a lavorare», aveva raccontato, «avevano due stipendi e due figli; nell’altra famiglia lavoravano un po’ tutti, nessuno aveva lo stipendio però avevano un cane, due nonni, una zia, diversi animali e cinque figlioli». Lui era uno di quei cinque.
In primavera e in estate era sempre là fuori a giocare o ad aiutare i grandi, mentre in autunno e in inverno gli accadeva anche di stare per molto tempo chiuso in casa, quando venivano giorni in cui non finiva mai di piovere. E lui si chiedeva dove andasse a finire tutta quell’acqua che veniva giù così fitta. Perché a casa loro ne restava solo un po’, quella che inzuppava la terra dei campi e riempiva il pozzo in mezzo all’aia. Scoprì più tardi che l’acqua se ne andava giù verso la pianura dove i fiumi diventavano grossi e marroni e a volte facevano anche dei grandi disastri, un po’ come gli uomini che ci abitavano.
Un anno, venne un inverno così nero che si portò via tutto il pane, così che non ci fu più niente da mangiare. Quello stupido inverno ritornò anche l’anno successivo. Nessuno di loro morì di fame, perché prima che accadesse il peggio se ne andarono via dietro a quel pane che non c’era più. Come tanti altri seguirono il percorso dell’acqua e scesero giù in pianura spinti dalla miseria.
La miseria era come una malattia. Se avevi fortuna guarivi, ti dimenticavi di lei e non ci pensavi più se non qualche volta, per nostalgia. Ma se questa fortuna non ce l’avevi poteva accadere che diventasse una malattia cronica, e allora non te la toglievi più di dosso; ti si appiccicava ai vestiti, alla pelle, all’anima e ti accompagnava per sempre fino dentro alla tomba.
(continua)
J. Iobiz
Mi hai commosso. Mi hai ricordato quando ho portato mio Padre a rivedere dove era nato. Di li a poco sarebbe morto. Grazie
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Direi che è un raccontare abbastanza normale … nella casa del mio nonno oggi ci sta un Eurospin enorme con parcheggi dopo che il terremoto del 68 ha raso al suolo buona parte di quella via … “tutto cambia, tutto è in continuo movimento, e aggiungo nulla resta uguale quando ci si specula dentro” comunque in quel tempo c’erano ricchi poveri … e poveri ricchi … ma era tutto molto più semplice ( ho visto che continua… meno male) un gran bravo nipote !
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L’ha ripubblicato su Jakob Iobiz.
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