Beati gli ultimi (4)

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Il treno avanza lentamente, dal finestrino il paesaggio sembra sempre lo stesso; campi ricoperti dalla nebbia sotto un sole indeciso che non riusce a dissolverla. All’interno dello scompartimento c’è chi sonnecchia, chi legge, chi guarda fuori. Poi il treno si arresta in aperta campagna e dopo alcuni minuti riprende lentamente la marcia per fermarsi ancora pochi chilometri dopo. Dipinto su un vecchio muro di mattoni rossi c’è il nome di una città. Salgono sul treno delle persone; transitano lungo il corridoio un padre con cinque figli, un tassista piuttosto anziano abbracciato ad una giovane ragazza bionda, un marinaio che, proprio mentre passa davanti al nostro scompartimento, dice: «Oh, finalmente, da qui non si vede il mare!», dei giovani ragazzi con le cuffie agli orecchi, gli occhi persi dentro i loro smartphone e il domani al posto del viso.

In quel momento sentiamo annunciare che la frontiera che dobbiamo attraversare è stata chiusa. Il treno dovrà fermarsi e alla prossima stazione, l’ultima prima del confine.

Ci fanno scendere. Un grosso hangar ci accoglie e anche se non è ben riscaldato è comunque una sistemazione migliore rispetto al gelo che c’è fuori. Al suo interno ci sono già molte persone. Le notizie che circolano sono confuse. Vengono distribuite bevande calde e coperte. Sentiamo delle urla che provengono dal lato opposto a dove siamo noi; è una donna. Dall’alto di una scala di emergenza urla indirizzando le sue parole alle persone che stanno sotto di lei.

Dice che il nord non c’è più. Alcuni uomini in divisa si dirigono di corsa verso la scala. La donna li vede arrivare e si mette a parlare in modo concitato. Dice che non esiste più nessun nord, che forse non è neppure mai veramente esistito; era solo un’idea, anzi mille idee messe insieme una all’altra. E giura che quello che dice è tutto vero, e lo è proprio in quello stesso istante, come lo avremmo visto, ascoltato, respirato anche noi tra non molto. Non ci sarebbe stato nessun finale liberatorio, come quando in teatro si accendono le luci in sala e gli attori escono in scena per prendersi gli applausi del pubblico. Il dramma e la vita si sono mischiati in modo irreversibile. Attori e personaggi si sono saldati tra di loro, si sono fusi ed hanno ormai il medesimo sangue, la medesima carne. Ed è la nostra carne che sarebbe stata protagonista di questo dramma.

Ma queste forse non sono le parole che lei disse e sono invece quelle che fisso nella mia mente di adolescente quando, qualche anno più tardi, le riporto in quel mio diario. Tanti piccoli mattoni di un muro che ricostruisco negli anni successivi.

La donna rimase in silenzio e quando gli addetti alla sicurezza le arrivarono vicini tentò di gettarsi nel vuoto ma non ci riuscì perché venne afferrata e accompagnata in un altro edificio. Durante il percorso la gente si accalcò per vederla passare, la guardava e ancora non capiva.

(continua)

J. Iobiz

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