I venditori di ombrelli (1)

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Non so se Mario sapeva di essere mio padre, ma io ne ero certa perché me lo aveva detto mia nonna prima di morire. E poi mi somigliava, stessi capelli biondi, stessi riccioli, le mani grandi e il viso spigoloso come il mio. Lo sapeva ma per qualche motivo voleva tenere questa cosa nascosta. Una delle ultime volte che lo vidi fu agli inizi del mese di ottobre, quando avevo compiuto da poco tredici anni. Certo, chi lo avesse incontrato prima di quella sua ultima estate lo avrebbe sicuramente trovato una persona diversa. Lui era un tipo allegro e cordiale, lavorava come un matto guadagnando un bel po’ di soldi e altrettanti li spendeva; sembrava in pace con il mondo. Ricordo che una delle ultime volte che lo incontrai mi raccontò che era stato al mercato di roba vecchia che facevano in una piccola cittadina qui vicino dove aveva comprato un oggetto interessante.

Si trattava di un ombrello: un ombrello di tessuto leggero, nero, con le stecche metalliche di colore acciaio e un piccolo manico anch’esso nero rivestito in tessuto finta pelle come se ne facevano qualche tempo fa. All’apparenza quindi assolutamente niente di straordinario. Tuttavia, non appena preso in mano, Mario aveva sentito quell’ombrello particolarmente leggero ed era stato poi stupefacente l’effetto che si era verificato quando l’aveva aperto. Da quel preciso istante, infatti, il peso del suo corpo era scomparso e aveva scoperto di essere in grado di sollevarsi da terra. Era sufficiente avere la volontà di spostarsi che immediatamente, come per incanto, iniziava realmente a dirigersi, in modo dolce, proprio nella direzione voluta, librandosi nell’aria. Giuro, è quello che mi raccontò, preciso, preciso! Non era come volare, disse, appeso all’ombrello: era una cosa assolutamente diversa. Il peso del corpo scompariva e senza muovere nessun muscolo poteva decidere di alzarsi in aria, avanzare o fare qualsiasi altro movimento.

Gli dissi subito che forse aveva trovato l’ombrello di Mary Poppins, ma lui disse: «Tu non mi credi». Per non contrariarlo gli risposi: «Certo che ti credo. Era solo che mi era passata per la testa questa cosa di Mary Poppins!». E allora lui continuò, quasi a volermi convincere della realtà di cosa gli era accaduto: «Allora ascolta e non mi interrompere. Ho aspettato che passasse il pomeriggio e quando era quasi buio ho aperto l’ombrello. Tenevo nella mano destra il manico e in un attimo mi sono ritrovato all’altezza del più alto palazzo della piazza. Ne ho scorso con lo sguardo tutte le bozze della facciata, di pietra in pietra, fino in cima, a una altezza di quaranta o cinquanta metri da terra. Da lassù ho visto il quadrato formato dai tetti dei palazzi. Non li avevo mai visti in quel modo, con quell’ampia sommità erbosa che ricopre il bastione sud della piazza, riquadrato anch’esso dalla stessa pietra grigia. Ho potuto vedere e toccare da vicino quell’erba fitta e cortissima che c’è lassù in alto in cima alla torre, di cui neppure immaginavo l’esistenza; è come un tappeto, un magnifico tappeto verde». Così mi raccontò quella sera e disse anche che tutta questa avventura gli era accaduta mentre era insieme a due suoi amici, un ragazzo e una ragazza. Lei specialmente, non ricordo bene ma mi sembra che mi disse che si chiamava Elisa o Elisabetta, lo incoraggiava e lui, nel seguirla, aveva fin da subito perso ogni timore di cadere. Anzi, era quasi certo che se anche avesse abbandonato la presa con cui reggeva l’ombrello, avrebbe ugualmente continuato a volare, così come aveva fatto sino a quel momento, più leggero dell’aria, mosso solo dal pensiero e dal desiderio di spostarsi e di essere adesso qua e subito dopo laggiù, sospeso tra la terra ed il cielo.

E in quegli istanti, Mario si chiedeva come fosse possibile che un semplice ombrello potesse consentire quegli effetti magici; a questo pensava mentre guardava l’ombrello e il vuoto sotto di sé. Chissà, pensavo tra me e me, se era tutto un sogno o se invece non era neppure un sogno ma una delle sue solite storie, uno di quegli strani racconti che gli era sempre piaciuto inventare, ma che negli ultimi tempi erano divenuti più strani e incomprensibili.

(continua)

J. Iobiz

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